Risposte alle domande più frequenti nella Malattia di Crohn

A cura di Vito Annese e Siro Bagnoli
GASTROENTEROLOGIA SOD2
Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi – Firenze

Cosa c’è di nuovo nel campo della terapia ?

Negli ultimi anni le novità si sono moltiplicate. Sono disponibili una grande varietà di mesalazine in grado di migliorare l’assorbimento nei vari distretti dell’intestino infiammato, oltre ad una grande varietà di formulazioni per somministrazioni topica. Cominciano ad essere disponibili i nuovi cortisonici ad azione locale sia per bocca che per via topica con meno effetti indesiderati. La più grande novità è stata senz’altro l’introduzione della terapia biologica (allo stato attuale gli anti TNF-α infliximab e adalimumab), terapia che inibendo l’effetto del TNF è di enorme aiuto nel trattamento delle forme resistenti alla terapia tradizionale e nelle fistole perianali, sia nella fase acuta che nella fase del mantenimento della remissione. Ci sono inoltre una serie di studi in corso su nuove citochine antinfiammatorie e loro antagonisti, sul ruolo degli antibiotici e probiotici. Non va dimenticato, inoltre, che negli ultimi anni è diventato più chiaro e definitivo l’importante ruolo dell’azatioprina e della 6-Mercaptopurina. Certo, molto c’è ancora da fare, e soprattutto nessuna di queste terapie sembra “cancellare” la malattia, nel senso che non esiste alcuna possibilità di guarigione definitiva, anche se attualmente sono certamente aumentate le possibilità di controllare meglio la ripresa delle fasi di attività della malattia. Inoltre il frequente raggiungimento della guarigione mucosa ottenuto con i farmaci biologici consente, anche se non in tutti i casi, una sostanziale modificazione della storia naturale della malattia, con remissioni più durature, minore incidenza di riaccensioni, minor tasso di ospedalizzazioni, minore necessità di ricorrere all’intervento chirurgico.

Le cellule staminali possono essere d’aiuto nel trattamento della Malattia di Crohn?

L’utilizzo delle cellule staminali sta indubbiamente  suscitando enormi entusiasmi ed aspettative in molti campi della medicina, soprattutto in quello delle patologie degenerative e cardiovascolari. I risultati delle prime esperienze sull’uomo lasciano infatti pensare ad un impatto molto positivo su molte patologie. Nella Malattia di Crohn l’utilizzo delle cellule staminali è stato studiato in 2 situazioni diverse. Una potenziale applicazione è quella della patologia fistolizzante perianale complessa: la speranza è che le cellule staminali di un donatore iniettate all’interno del tragitto fistoloso, dopo un opportuno trattamento chirurgico volto a drenare le eventuali raccolte ascessuali, consentano la completa cicatrizzazione dei tragitti fistolosi. I risultati preliminari in questo senso sono assolutamente promettenti, anche se sono necessarie anche verifiche sulla sicurezza di tali trattamenti. L’altro campo di applicazione riguarda il trapianto autologo di midollo osseo nelle forme di malattia di Crohn particolarmente aggressive e resistenti a tutte le terapie. In questo caso il paziente viene sottoposto ad un prelievo delle proprie cellule staminali del midollo osseo, prima di essere sottoposto ad un importante trattamento chemioterapico che assicuri la completa distruzione del sistema immunitario. A questo punto vengono reinserite le cellule staminali opportunamente stimolate. Le cellule immunitarie mature derivanti da questo nuovo tessuto trapiantato dovrebbero aver perduto la capacità di indurre e mantenere quei processi infiammatori cronici che sono alla base del danno intestinale che si verifica nella malattia di Crohn. I risultati di questo approccio sono estremamente promettenti, ma tale metodica, per i gravi rischi connessi al trattamento chemioterapico che espone il paziente anche a infezioni potenzialmente mortali, va riservata solo ai casi estremamente severi di malattia di Crohn, quando non è più proponibile alcuna metodica farmacologica alternativa.

Che cos’è la terapia immunosoppressiva precoce?

Tradizionalmente l’utilizzo dell’azatioprina è sempre stato riservato alle forme di malattia avanzata, dopo che si era già instaurata una condizione di steroidodipendenza (cioè di impossibilità a sospendere completamente il trattamento con il cortisone per la ripresa dei sintomi al momento della diminuzione della dose o subito dopo la sua sospensione). Varie evidenze cliniche, anche in pazienti in fascia pediatrica, hanno dimostrato che il trattamento precoce con tiopurine, quando ancora la malattia è iniziale e non si sono verificate quelle alterazioni irreversibili a carico della parete intestinale, è estremamente efficace e sembra migliorare la storia naturale della malattia. Ovviamente questo approccio non può essere consigliato in modo indiscriminato a tutti i pazienti affetti da Malattia di Crohn, anche perché fortunatamente, una certa parte di pazienti ha un decorso estremamente favorevole. E’ quindi consigliabile un trattamento più “energico” fin dalle prime fasi della malattia solo in quei pazienti in cui è prevedibile un decorso più aggressivo della malattia (soggetti giovani, fumatori, con malattia estesa e necessità di usare gli steroidi al primo episodio). Comunque, a differenza che in passato, quando l’azatioprina veniva spesso utilizzata dopo vari episodi di riacutizzazione richiedenti cortisone, attualmente il farmaco si tende ad utilizzare in tutti i casi già al primo episodio di recidiva precoce dopo un primo trattamento steroideo. 

Terapia “step-up” o “top-down”?

L’approccio tradizionale al trattamento della Malattia di Crohn è sempre stato quello “a gradini” “a salire” cioè “step-up”, che consisteva nell’utilizzo in successione di farmaci  a potenza via via più elevata man mano che la gravità della malattia aumentava. Di solito il primo farmaco impiegato era la mesalazina; se la malattia non rispondeva al trattamento si passava allo steroide e quindi, in successione, agli immunosoppressori e ai biologici. Al vertice di questa piramide terapeutica stava l’intervento chirurgico, quando la malattia non rispondeva più ad alcun tipo di trattamento medico. Con l’avvento dei biologici per la prima volta si è avuto a disposizione farmaci capaci di modificare la storia naturale della malattia, aumentando i periodi di remissione stabile, diminuendo almeno in certe casistiche le ospedalizzazioni e la necessità dell’intervento chirurgico. Tali farmaci, similmente agli immunosoppressori (vedi terapia immunosoppressiva precoce), funzionano sicuramente meglio se utilizzati nelle fasi iniziali della malattia, quando ancora l’infiammazione non ha prodotto alterazioni irreversibili delle strutture intestinali. Di conseguenza il nuovo approccio al trattamento delle MICI in generale, e della malattia di Crohn in particolare, dovrebbe essere quello “top-down” che prevede fin dall’inizio l’utilizzo dei farmaci più aggressivi capaci di modificare la progressione della malattia, per poi eventualmente utilizzare farmaci meno impegnativi nelle fasi successive, una volta stabilizzato il quadro clinico. Un giusto compromesso tra i due approcci potrebbe essere quello dello “step-up accelerato”, che prevede il rapido passaggio alla terapia biologica o immunosoppressiva in caso di mancata risposta al primo tentativo terapeutico con steroidi o di precoce riacutizzazione dei sintomi alla sospensione del cortisone. Come già anticipato precedentemente parlando dell’immunosoppressione precoce, questi nuovi approcci terapeutici non possono essere utilizzati in maniera indiscriminata in tutti i pazienti affetti da Malattia di Crohn, anche per motivi di ordine economico. E’ quindi necessario il massimo impegno da parte dei medici per individuare  precocemente quei pazienti che presenteranno un decorso più aggressivo ed invalidante della malattia, quelli cioè che beneficeranno maggiormente di un trattamento farmacologico aggressivo fin dalle primissime fasi della malattia.

Terapia biologica da sola o in combinazione con gli immunosoppressori?

La cosiddetta terapia combinata (infliximab + azatioprina) ha avuto negli anni alterne fortune. Durante i primi anni di utilizzo dell’infliximab si era notato che associare all’infliximab l’azatioprina comportava un beneficio clinico aggiuntivo, in quanto si riduceva il rischio di formazione di anticorpi anti-infliximab, probabilmente responsabili di mancata risposta al trattamento o perdita dell’efficacia (vedi alla voce infliximab del glossario). Nel frattempo però sono stati documentati alcuni casi di una rara forma di linfoma (il linfoma epatosplenico) in giovani adulti in trattamento combinato, suggerendo maggiore cautela.

Più recentemente però si sono avuti a disposizione studi con l’utilizzo dell’infliximab in soggetti che non erano mai stati trattai in precedenza con immunosoppressori. In questa tipologia di soggetti, che evidentemente presentavano forme più iniziali di malattia, la terapia combinata produceva tassi di risposta significativamente più alti rispetto alla terapia con infliximab e alla terapia con azatioprina da sola, sia nella malattia di Crohn che nella Colite ulcerosa. Per quanto riguarda l’adalimumab al momento non ci sono a disposizione dati sugli eventuali vantaggi di una terapia combinata.

Quale è la terapia della fase acuta dei sintomi ?

L’attività della malattia può essere molto variabile, passando dalla presenza di sintomi e segni lievi che non interferiscono significativamente con la vita quotidiana fino alla necessità di un ricovero ospedaliero con supporto nutrizionale artificiale. I medici valutano l’attività della malattia sulla base di alcuni parametri come: condizioni generali del paziente, n° di evacuazioni, presenza di dolori addominali, dimagramento, anemia, febbre, fistole ed altre manifestazioni extra-intestinali. Nelle forme con lieve attività può essere sufficiente la terapia con mesalazina, ma quando non è efficace, e comunque nelle forme con maggiore attività di malattia, è necessaria la terapia con corticosteroidi. Tale effetto può essere ottenuto anche con i corticosteroidi di nuova generazione, con minori effetti collaterali. Una volta ottenuto il controllo dei sintomi della fase acuta (in media dopo 2-4 settimane), si comincia a ridurre progressivamente e lentamente il dosaggio fino alla sospensione completa. Talora alcune riaccensioni della malattia, soprattutto nelle localizzazioni del colon, possono essere controllate con un ciclo di terapia antibiotica (metronidazolo, ciprofloxacina e, probabilmente, anche claritromicina). Questa terapia è meno standardizzata e deve essere valutata caso per caso. I soggetti con malattia moderata-severa che non hanno risposto completamente alla terapia con cortisonici possono giovarsi di un trattamento con biologici, da continuare in mantenimento in caso di risposta favorevole. 

E’ necessaria una terapia di mantenimento ?

La malattia di Crohn è caratterizzata da poussè di attività e periodi di remissione anche prolungati. Obiettivo della terapia di mantenimento è quello di prolungare il periodo di benessere. In Italia è largamente usata la mesalazina nella terapia di mantenimento, anche in ragione della sua elevata tollerabilità. Dall’analisi comparativa di diversi studi pubblicati su questo argomento si evince che la terapia con mesalazina ha un vantaggio modesto, dell’ordine del 10% o meno rispetto a nessuna terapia. La valutazione di questi risultati è resa complicata dalla grande variabilità di comportamento della malattia in diversi individui a seconda anche delle diverse localizzazioni, ma anche dalla diversità di dosaggio e caratteristiche delle formulazioni di mesalazina usate in questi studi. Sulla base di queste considerazioni, in attesa di conferme definitive, sembra comunque prudente continuare una terapia di mantenimento con mesalazina. Un altro farmaco usato nella terapia di mantenimento è l’azatioprina, per la quale esistono concrete dimostrazioni della sua efficacia (vantaggio del 30-40% rispetto a nessuna terapia). D’altra parte si tratta di un farmaco che richiede un’attenta sorveglianza per i suoi effetti indesiderati, per cui va riservato alla terapia di mantenimento nei pazienti con forme con esordio più severo, con frequenti riaccensioni, in pazienti steroido-dipendenti o steroido-resistenti, oppure allergici alla mesalazina.

I pazienti con malattia severa che sono andati in remissione con un farmaco biologico (infliximab o adalimumab) possono mantenere la remissione stessa proseguendo il biologico in mantenimento almeno per un anno,  con buone probabilità di successo.

Che rischi ha la terapia ?

Ogni terapia comporta dei rischi, ma anche non fare nessuna terapia può essere una scelta rischiosa. E’ importante che i farmaci vengano assunti nel giusto dosaggio e per la giusta indicazione, conoscendo ed eventualmente prevenendo i potenziali effetti indesiderati.

E’ necessaria una terapia dopo l’intervento ?

L’intervento, purtroppo, non è in grado di guarire dalla malattia, che ritornerà prima o poi (in circa il 70% dei casi entro 10 anni), di solito ripartendo proprio dalla sede della resezione. E’ opportuno pertanto riprendere la terapia quanto prima dopo l’intervento, per ridurre il rischio e la gravità della recidiva. Il primo farmaco impiegato nella prevenzione della recidiva post-chirurgica è stata la mesalazina. Diversi studi, condotti anche in Italia, hanno dimostrato che la mesalazina riduce però solo del 15-20% questo rischio. In alcuni pazienti, magari più giovani, sottoposti ad ampia resezione o già al secondo intervento, questo tipo di “protezione” offerta dalla mesalazina potrebbe essere insufficiente. E’ stato dimostrato che una terapia con metronidazolo nei tre mesi successivi all’intervento riduce notevolmente il rischio di recidiva fino ad un anno e che l’azatioprina è apparentemente più efficace della mesalazina nella prevenzione della recidiva. Nei pazienti a maggior rischio di recidiva, con tendenza alla formazione di fistole o plurioperati, è suggerita una terapia di mantenimento più energica con azatioprina. Recentemente è in corso di attuazione un ampio studio multicentrico randomizzato e controllato sull’utilizzo dell’infliximab nella prevenzione della recidiva, sulla scorta delle prime osservazione preliminari che hanno dimostrato una importante efficacia del farmaco in questa situazione. Un algoritmo diagnostico terapeutico condiviso nella comunità scientifica internazionale è il seguente: viene anzitutto valutato il rischio di recidiva dopo l’intervento chirurgico. Nei pazienti a basso rischio (primo intervento, non fumatori, con malattia stenosante) può essere iniziata fin da subito dopo l’intervento chirurgico una terapia a base di mesalazina fino ad un controllo endoscopico a circa 6 mesi dall’intervento: in caso di assenza di recidiva o di presenza di recidiva iniziale/lieve può essere tranquillamente proseguita la terapia con mesalazina. Viceversa se si documenta una recidiva di grado severo è consigliato passare ad una terapia con tiopurine (in attesa che vengano confermati i dati di efficacia dell’infliximab). Le tiopurine sono invece consigliabili fin da subito in caso di paziente ad alto rischio di recidiva (plurioperato, fumatore, con malattia fistolizzante).

La terapia è diversa in base alla diversa localizzazione ?

Quando si utilizza la mesalazina è fondamentale usare quella con rilascio nella sede dell’infiammazione. Non ci sono differenze se si usa il cortisone o i biologici o l’azatioprina. Le forme del colon rispondono meglio di quelle dell’ileo alla terapia antibiotica.

La malattia perianale risponde solo alla terapia con antibiotici (metronidazolo, cirpofloxacina o entrambi), all’azatioprina e ai biologici (considerati dal gruppo italiano di studio delle MICI come i farmaci di prima scelta per il trattamento delle fistole complesse)  

C’è una terapia per le fistole ?

Nel caso di fistole entero-enteriche (cioè tra diversi tratti dell’intestino), enterovescicali o enterovaginali, di solito la terapia medica, incluso i biologici, è di minima efficacia. L’infliximab e l’adalimumab sono estremamente efficaci nelle fistole cutanee, anche perianali. Purtroppo è elevata la frequenza di recidiva dopo qualche mese dal termine del trattamento.

Bisogna continuare la terapia durante la gravidanza ?

La maggior parte dei farmaci usati (mesalazina, cortisone, azatioprina ed anche i biologici) possono, se necessario, essere tranquillamente usati in gravidanza (i biologici se è possibile è consigliabile sospenderle nell’ultimo trimestre) . La brusca e immotivata sospensione della terapia e l’eventuale riaccensione della malattia possono avere effetti negativi sul feto (ad esempio una crescita più lenta) o sull’esito della gravidanza (per esempio condizionare morti intrauterine del feto o aborti).  In generale è opportuno intraprendere la gravidanza in un periodo di remissione della malattia; in questo modo solo nella minoranza dei casi la malattia avrà una riaccensione durante il corso della gravidanza. Non c’è motivo di sospendere la terapia con mesalazina, che può essere tranquillamente usata per tutta la gravidanza. Se possibile, conviene ridurre e sospendere il cortisone in quanto potrebbe favorire un esagerato aumento del peso e della glicemia nel neonato. Non ci sono effetti negativi sul feto che anzi “matura” più rapidamente; solo in caso di elevati dosaggi e lunga durata del trattamento può verificarsi un’inibizione del surrene nel neonato nei primi giorni di vita. Non sono noti chiari effetti negativi dell’azatioprina sul feto, ma alcuni medici consigliano, a scopo precauzionale, per i rischi di malformazioni fetali evidenziati in alcuni modelli animali, la sospensione prima del concepimento. Ma i dati clinici a disposizione su donne con MICI che hanno portato a termine una gravidanza sotto azatioprina non hanno evidenziato problematiche particolari. Anche i biologici, sebbene siano capaci di oltrepassare la barriera placentare, soprattutto nell’ultimo trimestre di gravidanza, non sembrano correlarsi con problematiche importanti a carico del feto. A scopo prudenziale sarebbe comunque preferibile, se è possibile, sospenderli nell’ultimo trimestre di gravidanza.